Luglio 2005

 

 

Ma che forse non sono esotiche tutte le case altissime, i “grattacieli”, che van sorgendo nella capitale di quello che fu il Ducato di Milano ?

Vuoi le compagini di piazza San Babila e del Piazzale della Repubblica, vuoi le moli che singole e subitanee sbarrano il cielo a chi esce dalla Porta Venezia o a chi si avvia alla Porta Vittoria, son barbarismi che fanno simile la nostra città a una delle capitali sud-americane.

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Perché questo infittimento del centro urbano in un Ducato che si estende pressoché omogeneo tra Adda e Tesino, con una gittata sino ai ponti sui due fiumi che non si scosta molto dai 30 chilometri ?

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Nella città occorre premettere delle regolette elementari ed applicarle subito: non più case superanti l’altezza regolamentare di un tempo (24 metri), non più l’infittimento dell’abitato in confronto a quello che era prima della rovina di guerra...

E dal concetto fondamentale che il capoluogo potenzia il contado e il contado potenzia il capoluogo, sorgerà quello spirito metropolitano che occorre eccitare perché la metropoli si attui in forme civili, senza esotismi e senza arcaismi.

 

G. de Finetti, Il Ducato di Milano come ambito della metropoli moderna, in Almanacco della Famiglia meneghina, 1950

 

 

Poggiando su questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.

...le case non hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri, ma neppure di salire più in alto

...la tendenza a sopralzare il limite di altezza degli edifici, a stimolare per tal mezzo l’attività edilizia e la valutazione complessiva della città, sarebbe erronea ed anzi assurda.

 

G. de Finetti, Sulle aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in Milano, costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 395.

 

 

 

Milano potrebbe essere detta la città più inquieta, più incerta, più casuale d’Italia.

Milano rimane anche in sede scolastica esempio del come non debba essere fatta una città di pianura.

Se ti metti a cercare le cause del male, le trovi nell’assenza di un pensiero autoctono, nella natura di città convegno: convegno di mercanti, tappa di eserciti; città importatrice di mode estranee, non città-madre.

 

G. de Finetti, Dattiloscritto per il programma di un Istituto di studi regionali e urbani, ora in Milano, costruzione di una città, op. cit., pp. 495-498.

 

 

L’integrazione del febbraio 2003 all’Accordo di programma del 1994 tra i Comuni interessati, la Provincia di Milano, la Regione Lombardia e la Fiera di Milano, che sancì il trasferimento della maggior parte delle attività fieristiche sull’area dell’ex raffineria di Rho-Pero, ha introdotto una Variante al Piano Regolatore del Comune di Milano che definisce le modalità di riutilizzo dell’area dismessa dagli usi fieristici e sino a quel momento ancora destinata ad attività fieristiche.

Un Accordo di programma è però una procedura accelerata e facilitata negli obblighi da rispettare, consentita solo per realizzare funzioni pubbliche di interesse regionale (quali appunto le funzioni fieristiche rilocalizzate a Rho-Pero).

Questa Variante consente, invece, l’edificazione di circa 900.000 mc di case ed uffici privati su un’area di circa 100.000 mq di superficie fondiaria e la cessione ad uso pubblico di circa 150.000 mq di aree pubbliche. L’edificabilità complessiva (1,15 mq/mq) è, cioè, circa il doppio di quella consentita ai Programmi integrati di riutilizzo in tutte le altre aree dismesse a Milano, ma con una dotazione di spazi pubblici che è la metà di quella dovuta per la quantità edificatoria consentita.

Inoltre in quella Variante il Comune non ha prescritto limiti di altezza e densità edilizia degli edifici, né su come dovesse essere distribuita la superficie pubblica.

Alcuni cittadini del quartiere, prevedendo gli esiti disastrosi di questa decisione, hanno impugnato al TAR Lombardia questa procedura e questi contenuti.

Prima ancora che i contenuti di questa Variante fossero comunicati alla Giunta e al Consiglio comunale, Fiera ha pubblicato sulla stampa economico-finanziaria un invito agli aspiranti acquirenti a presentare progetti per attuare quelle previsioni, indicando come criterio di scelta quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Già allora venne obiettato che non era chiaro se si dovesse intendere quella più vantaggiosa complessivamente (remunerazione della rendita fondiaria al proprietario dell’area + valore dei servizi pubblici proposti) o più vantaggiosa per il solo proprietario dell’area.

Fiera indirettamente rispose a questa obiezione modificando in corso di svolgimento il proprio bando di offerta di vendita, che prevedeva una valutazione preventiva del prezzo di acquisto offerto, e comunicando che avrebbe selezionato un gruppo di progetti ritenuti accettabili, procedendo poi all’apertura delle offerte economiche e scegliendo quella di maggior importo.

Fiera non ha mai reso noto ufficialmente quale fosse la base d’asta richiesta agli aspiranti acquirenti, anche se indiscrezioni la indicano attorno ai 250 milioni di Euro.

E’ chiaro, tuttavia, che essa avrebbe potuto scegliere un criterio che privilegiasse il vantaggio complessivo, e cioè, ferma restando la base d’asta ritenuta necessaria alle esigenze finanziarie indotte dalla realizzazione del polo esterno, impostare la gara su un criterio di ribasso delle volumetrie progettate rispetto a quelle massime consentite.

Tra i progetti presentati il Consiglio di Amministrazione di Fiera ne ha selezionati cinque, scegliendo infine quello che le garantiva la più alta remunerazione, cioè 523 milioni di Euro.

Se è vero che la base d’asta era di 250 milioni, se ne deduce che ferma restando questa e riducendo proporzionalmente la volumetria, se ne sarebbe potuto realizzare meno della metà di quella assentita. Ma anche se vogliamo stare a dati più accertabili, cioè l’offerta più bassa tra quelle selezionate da Fiera pari a 378 milioni, il criterio della riduzione proporzionale dei volumi porterebbe ad un indice di 0,83 mq/mq e a una volumetria complessiva di 635.000 mc, che con la cessione del 50% dell’area consentirebbe di soddisfare almeno le dotazioni pubbliche locali di 26,5 mq/ab prescritte dalla L.R. 51/75 allora in vigore.

Ma così Fiera non ha voluto fare, trasformando l’abnorme densità edilizia che grava sull’area e sul quartiere (1,15 mq/mq di densità territoriale e più di 8 mc/mq di densità fondiaria !) in surplus di rendita immobiliare.

Una quantità edificatoria così elevata su un’area così ristretta non può realizzarsi che con edifici molto alti e ravvicinati. Tanto ravvicinati che quasi tutti i progetti hanno utilizzato l’area pubblica inframmezzandola agli edifici privati per distanziarli almeno un po’.

Così fa anche il progetto CityLife (Ligresti, RAS, Lamaro e altri) che è quello prescelto da Fiera, che prevede tre torri di 220, 180 e 150 metri di altezza e una corona di edifici che vanno dai 50 ai 90 metri (da 14 a 23 piani), che prospettano direttamente sugli edifici preesistenti alti al massimo 8-10 piani.

D’altra parte, come si è detto, il Comune non aveva preventivamente indicato alcun obiettivo di interesse pubblico a Fiera, né – quindi – questa agli aspiranti acquirenti.

Eppure il problema urbanistico del quartiere Fiera era noto da tempo alla miglior cultura urbanistica milanese:la Fiera di Milano, si insediò nel 1922 sull’area dell’ex Piazza d’Armi, la cui giacitura aveva un orientamento difforme dai tessuti edilizi circostanti perché il Piano Beruto nel 1899 la disegnò secondo un’astratta simmetria con la giacitura del Cimitero Monumentale rispetto all’asse di corso Sempione. Essa ha, quindi, storicamente rappresentato un problema urbanistico irrisolto per la direttrice nord-ovest della città, provocando inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico che di un corretto assetto insediativo urbano. Nel tempo numerosi studi e progetti cercarono di ovviare a tali inconvenienti proponendo riassetti urbanistici che ricomponevano l’andamento di quel brano di città rispetto al tessuto edilizio circostante: così nel 1937-38 con il Progetto di Concorso per la Nuova Fiera al Lampugnano di Bottoni, Lingeri, Mucchi, Terragni, nel 1938 con il Progetto Milano Verde degli architetti Albini, Belgiojoso, Bottoni, Gardella, Mucchi, Peressutti, Putelli e Rogers, nel 1945 con il Piano AR, tra il 1946 e il 1951 con i progetti di de Finetti su incarico del Consiglio di amministrazione della Fiera. Una traccia di continuità con tale atteggiamento è reperibile persino nello schema della cosiddetta T rovesciata proposta dal Documento di Inquadramento urbanistico approvato dal Comune di Milano nel giugno 2000.

Tuttavia ciò che non è stato fatto in sede di Variante può e deve essere fatto dal Comune in sede di esame del progetto di Piano di Intervento presentato da Fiera per conto del suo promissario acquirente.

Occorre, innanzitutto, che il volume consentito venga riportato a quello previsto per tutti gli altri PII del Documento di Inquadramento Urbanistico (0,65 mq/mq), come avrebbe dovuto essere se non si fosse utilizzata illegittimamente la scappatoia dell’Accordo di Programma.

Inoltre, è necessario che il verde pubblico non venga utilizzato per distanziare gli edifici privati (lasciandolo oltre tutto al buio delle loro ombre per gran parte dell’anno), ma venga mantenuto compatto (ciò che ne migliora la valenza in termini di vitalità della vegetazione ed effetti di termoregolazione dell’ambiente).

Ciò è tecnicamente possibile addirittura con le stesse volumetrie previste dalla Variante, come dimostra uno dei progetti selezionati e non scelto solo per minor convenienza economica di Fiera.

E’ comprensibile e legittimo che Fiera tuteli prioritariamente i suoi interessi economici; non è comprensibile né legittimo che il Comune subordini il proprio ruolo a quegli interessi anziché tutelare prioritariamente gli interessi della città e dell’ambiente.

Sinora questo ruolo è stato surrogato dall’azione spontanea dei cittadini del quartiere: quando vedremo fare il proprio dovere da parte dei nostri amministratori pubblici ?

 

Prof. Sergio Brenna

Facoltà di Architettura Civile

Politecnico di Milano