Prof. Architetto

Sergio   Brenna

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Milano, 21 dicembre 2004

 

 

 

 

 

 

 

Concordo con Camillo Langone (articolo di venerdi 17 dicembre) che la mancanza di responsabilità dei più pervasivi protagonisti ed esegeti dello star system dell’architettura nei confronti delle città in cui operano ci impone di aprire gli occhi di fronte ad operazioni come quella del riutilizzo del vecchio recinto fieristico che, dietro l’immaginifica spartizione mezzadrile dell’area tra pubblico e privato, nascondono l’incredibile risultato di riuscire a collezionare contemporaneamente due danni: uno spazio pubblico ed una superficie fondiaria entrambi insufficienti allo smisurato indice volumetrico (il doppio di tutti gli altri progetti di riutilizzo di aree dismesse a Milano !) benevolmente concesso a Fiera solo per le sue esigenze finanziarie.

Non a caso già dallo scorso anno ho dedicato all’analisi di questo tema il mio corso di Fondamenti di urbanistica nella Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano.

Paradossalmente, in questo caso, se proprio non si vuol ridurre il volume edificabile, anziché richiedere la cessione ad uso pubblico di metà dell’area, sarebbe meglio aumentare la superficie fondiaria, consentendo così l’utilizzo di soluzioni planivolumetriche più compatibili con il tessuto edilizio preesistente e circostante.

Ciò, ovviamente, richiederebbe un’idea chiara e pubblicamente dichiarata e condivisa di dove si intenderebbero ricollocare strategicamente le superfici pubbliche non cedute all’interno dell’area di intervento, su cui, invece, l’Amministrazione comunale ostinatamente tace.

Vale forse la pena di rileggere le parole di Giuseppe de Finetti, autore nel 1950 di una ben più meditata proposta di riassetto dell’area:

 

Ma che forse non sono esotiche tutte le case altissime, i “grattacieli”, che van sorgendo nella capitale di quello che fu il Ducato di Milano ?

Vuoi le compagini di piazza San Babila e del Piazzale della Repubblica, vuoi le moli che singole e subitanee sbarrano il cielo a chi esce dalla Porta Venezia o a chi si avvia alla Porta Vittoria, son barbarismi che fanno simile la nostra città a una delle capitali sud-americane.

Se ti metti a cercare le cause del male, le trovi nell’assenza di un pensiero autoctono, nella natura di città convegno: convegno di mercanti, tappa di eserciti; città importatrice di mode estranee, non città-madre.

Oggi è l’americanismo indigesto che folleggia in grattacieli.

Perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all’utile ?

Anche se animato da volontà di far nuovo, di far grande, ogni signore delle ferriere suole affidare la soluzione dei propri problemi ad un tecnico ubbidiente alla moda che è nell’aria e alla personalità volitiva del padrone.

Costui ha sempre delle idee, raccolte a Londra, a Parigi, oggi soprattutto in America: costui si gloria non di inventare, ma d’imitare ieri un lord Derby, o un banchiere Laffitte, oggi una Corporation famosa pel suo grattacielo.

Gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano ed al mirabolante non servono all’architettura e, quando per caso si dedicano a questo mestiere che è tutto reale e concreto, raramente giovano. E danno non piccolo fanno anche gli ingegni copiatori, quelli che per mancanza di forza inventiva e di spirito critico si attaccano alla moda e seguono solo questa, accettandola tal quale anche se allogena ed estranea affatto al loro tema, al loro clima, ai loro mezzi economici e tecnici.

(…)

Guai a lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d’azione, che credono di fare la civiltà d’oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il danaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l’industria del domani, la ricchezza del domani. E questi realizzatori noi sappiamo sin d’ora che balzeranno alla ribalta alla prima occasione a bandire programmi mirabolanti e semplicistici, a chiedere libero campo per le loro imprese, a battersi per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande.

Conviene dunque precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città, che valga anche a difenderla dagli improvvisatori.

 

G. de Finetti, La Ricostruzione delle città. Per la città del 2000, serie di articoli inediti per  “Il Sole”, 17 aprile 1943, ora in Milano. Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, pp. 322-323.

 

 

I cittadini del quartiere Fiera, per niente convinti della bontà di affidare la definizione della trasformazione urbana della propria città “agli architetti più famosi del mondo” ingaggiati in maniera certamente non disinteressata “dai gruppi immobiliari più importanti del mondo”, come nelle cronache milanesi è stato servizievolmente riferito, già il 28 aprile scorso hanno presentato al TAR un ricorso contro l’illegittimità di tale procedura, contando che in questo modo si possa riaprire una reale discussione che affidi alla decisione pubblica ciò che sinora é stato concordato in ristretti comitati di affari.

Perché, invece, gli intellettuali e gli ordini professionali tacciono ?

 

                                                                                                Sergio Brenna