Corriere della Sera, 16/1/2005
Europa contro America
Mario Botta attacca i seguaci del gigantismo senz'anima E
non salva le opere di Isozaki, Libeskind, Calatrava
di: Panza Pierluigi
Come c' è un Amor sacro e un Amor profano, c' è un'
architettura «sacra» e una «profana». Il campo di battaglia dove le due tendenze
si affrontano sono le nostre città. E la battaglia è quella mondiale tra l'
architettura della vecchia Europa, che difende storia e tradizione urbana,
contro quella dell' America e delle Tigri asiatiche, che trattano la città come
un deserto sul quale posare oggetti di design. È la battaglia tra chi invoca il
rispetto del genius loci, della città come tessuto da rispettare (quella
«sacra» con tendenza a sinistra), contro l' architettura-immagine indifferente
ai luoghi, ovvero quella degli shopping-center della consumer-society (quella
«profana» con tendenza a destra).
Mario Botta, l' architetto della Nuova Scala, del Museo di Rovereto, prossimo
curatore a Firenze di una mostra sul sacro in architettura (alla Gipsoteca dal
30 aprile), come Pietro l' Eremita chiama alla nuova crociata contro l'
architettura dell' «indifferenza» e del «superlusso». «Dobbiamo opporci alla
perversione dell' architettura. E questa perversione è l' architettura-oggetto,
intercambiabile, senza relazione con il contesto urbano e con la memoria
storica, che fa diventare la città un deserto». Il cavallo di Troia di questa
tendenza, per Botta, è stata l' ultima Biennale di Venezia, «Metamorph», curata
dall' americano Kurt Foster. Il quale, per l' appunto, sostiene un metodo
proprio opposto: «Prima le cose erano pensate per opposizioni bianco/nero,
sinistra/destra; oggi c' è una continuità di ingredienti soprattutto nel
confronto tra edificio e luogo in cui sorge». Insomma ci sarebbe uno spazio per
una architettura ibrida, trasversale.
Las Vegas artificiale. Per Botta, invece, si tratta solo di «architettura del
disimpegno verso la storia», e ciò equivale a una «caduta nel profano, a una
architettura di vetrine e dell' iperlusso, dove il rapporto tra giorno e notte
e quello con le stagioni e con la luce non è più generatore di spazi. Negli
shopping-center, negli aeroporti tutto è artificiale, tutto avviene all'
interno dove si costruiscono finte piste da sci e finte città. Si abbandona la
città vera per farne una falsa, un luna park, una Las Vegas in peggio, non
dichiarata».
La battaglia è chiara. Il modello dei centri commerciali a stelle e strisce,
con strada, parcheggio e un contenitore indifferente al sito, non deve passare
in Europa, perché è un modello «immobiliarista - dice Botta -, determinato solo
dai metri quadrati, che sfrutta solo la posizione di rendita che era stata
acquisita dalla città storica e la svende». Ma è un modello che sta già
passando...
Prendiamo, ad esempio, il progetto per le nuove Halles di Parigi. «Il concorso
per Les Halles chiedeva di fare un grande contenitore in relazione con la
metropolitana. Si stabilivano i dati fondiari, ma in assenza totale di
contenuti. Poteva essere un ospedale, un supermercato: è tutto intercambiabile,
c' è l' azzeramento persino delle funzioni. Basta costruire contenitori. È la
perversione, è l' anticittà».
Operazione violenta. E andiamo avanti con gli esempi. «Il Telecom Center di
Tokio di Hellmuth Obata è una madornale caricatura di un arco fuori contesto e
fuori proporzioni, con un uso equivoco del vetro che è il contrario della
trasparenza». Avanti... «Il Complesso Samitaur di Eric Owen Moss a Los Angeles
è un blocco di 100 metri di cemento, puro esibizionismo fine a se stesso».
Soluzioni che invadono l' Europa. La Potsdamer Platz a Berlino è stata una
operazione violenta, e qui «il Sony Center di H. Jahn Murphy è la negazione
dell' architettura, è il fuori scala, fuori dal posto». Quanto a Milano, «i tre
grattacieli per l' area della ex Fiera di Libeskind, Hadid e Isozaki sembrano
tre oggetti messi lì, il lungo, il corto e lo storto... Non si qualifica così
la città». Ma i grattacieli non fanno risparmiare spazio? «Ma poi come si
utilizza lo spazio? Se i grandi vuoti che restano sotto si usano per il
parcheggio delle auto non ci siamo!».
Quanto alle architetture d' interno, poi, meglio non parlarne. Il modello da
combattere, qui, è la regola dell' open space. «Gli interni profani sono le
architetture senza gerarchia di spazio. Corridoio e tinello sono spariti, sono
tutti spazi anonimi senza invenzione, tutto è pulito, asettico, brillante. Ma
viste da vicino queste architetture si spengono: sono il contrario di Santa
Maria del Fiore di Brunelleschi».
Di contro a questa tendenza che giudica un «imbarbarimento», e che ha cancellato
(specie nelle Giunte di centrodestra) tutti i Piani Regolatori, l' architettura
del «sacro» è quella che riconosce «la città come territorio della memoria»,
della stratificazione dei segni. «All' opposto dell' operazione americana, dove
c' è cancellazione e sostituzione con una nuova soluzione immobiliare -
continua Botta - l' architettura deve ripartire da contesto e memoria. La vera
sacralità è la memoria della città: o si lavora per la città o si è contro la
città».
Ripartire dai maestri. E in che modo lavorare per la città? Per Botta
ripartendo dai grandi maestri, Carlo Scarpa, Franco Albini e dai loro
interventi che partono dalla memoria della città, non come il ponte di Santiago
Calatrava a Venezia: «Niente da dire, lui è uno straordinario strutturista, ma
un po' estraneo al modello della vecchia città europea». Meglio il maestro
hi-tech di casa nostra, Renzo Piano, il cui «progetto per la ex Fiera
ricostruiva il contesto e il cui Auditorium Paganini a Parma è un' opera che
nasce dalla memoria della città». E tra gli stranieri meglio il portoghese
Alvaro Siza, «con il suo intervento di ricostruzione del contesto a Santiago di
Compostela» o persino un purista-minimal made in Japan come Tadao Ando, che
«conserva la luce come elemento generativo, persino nell' atelier Armani a
Milano».
Contro l' architettura dei «non-luoghi» (così definiti dal sociologo Marc
Augé), dell' ibridazione, dell' indifferenza, Botta chiama a schierarsi per la
salvezza della città. Il «breviario» che ha in mano è la lezione dell'
architetto e teorico Louis Khan, che parlava del «passato come amico. Da questo
punto di vista anche le nostre peggiori periferie sono condannate a
migliorare». Ripartire «dal territorio fisico e storicizzato», ripartire «dall'
etica», da una «architettura-slow, pensata, dai tempi lunghi»... Committenza
permettendo. Specie la committenza pubblica per la quale l' architettura
(Francois Mitterrand docet) resta uno straordinario manifesto di pietra. In
vista delle elezioni. Quelle sì davvero «sacre».