La
nota che vi illustrerò è stata scritta a luglio in vista del consiglio comunale
aperto previsto per quel periodo: nel tempo intercorso sono accaduti alcuni
fatti che rendono necessarie alcune precisazioni.
Un
bravo economista milanese, Marco Vitale, ha recentemente dichiarato su un
giornale che le cronache di quest’estate sulle note vicende nazionali in campo
economico-finanziario e giudiziario, sono state la sua summer school.
Ecco
anche noi qui dovremo far tesoro del metodo del nostro dotto concittadino, e
fare la nostra summer school traendo
insegnamento da quanto le cronache milanesi hanno riferito da luglio ad oggi a
proposito delle questioni oggi in esame.
La
prima notizia, come sapete, è che il Sindaco e la Giunta hanno smentito il
proprio impegno con questo Consiglio a non assumere determinazioni a riguardo
del progetto CityLife prima che se ne potesse discutere a settembre:
evidentemente il Sindaco e l’Assessore Verga ritenevano più cogenti le promesse
fatte al Presidente Roth di chiudere rapidamente la questione secondo i suoi desiderata, e possiamo supporre che il
Sindaco, dopo il proprio placet,
gliene abbia dato tempestivamente comunicazione per telefono e che Roth gli
abbia risposto che si sentiva tutto fremente e che avrebbe voluto baciarlo sulla
fronte.
Certo
la scena non avrà avuto la stessa grandiosità dei fatti nazionali, ma, fatte le
debite proporzioni, sono certo che il Sindaco se la sarà cavata senza
sfigurare: il controllato detta le proprie regole al controllore, il quale di
buon grado le fa proprie, rivestendole di legittimità istituzionale. Ricordo
ancora una volta che Fondazione Fiera ha pubblicato sui maggiori quotidiani
economici nazionali e internazionali le condizioni della propria offerta
pubblica di vendita (quantità edificabili, cessioni pubbliche, funzioni,
altezze, ecc.) ben prima che il Sindaco ne proponesse i contenuti al Collegio
di Vigilanza: quando si dice essere sicuri del fatto proprio !.
La
seconda notizia di cronaca è che a fine luglio, a commento dell’intesa sottoscritta
tra FS e Comune di Milano, l’Assessore Goggi dichiarava che si sarebbe
applicato alla dismissione degli scali ferroviari il modello Fiera: metà delle
aree a verde e sulle rimanenti volumetrie commisurate alle esigenze finanziarie
del proprietario.
Come
vedremo si tratta di un criterio privo di qualunque criterio di razionalità
urbanistico-insediativa, ma risponde piuttosto all’immagine propagandistica di
una sorta di spartizione mezzadrile tra pubblico e privato.
Sottolineo
immagine, perché in realtà il fabbisogno di aree di cessione dipende dalla
quantità edificabile che si accumula sulla parte rimanente e, quindi, la
cessione della metà può essere giusta o insufficiente in relazione a ciò.
Voglio solo segnalarvi che Luca Beltrami Gadola in un suo articolo su
Repubblica/Milano di martedì scorso al riguardo fa rilevare come nel 1984
(Sindaco Tognoli), in suo un piano attuativo di 900.000 mq il Comune avesse
quantificato la cessione a uso pubblico nei due terzi dell’area con la
destinazione a edilizia popolare della metà dell’edificazione ammessa.
Senza
voler fare il nostalgico dei bei tempi andati, voglio solo che abbiate presente
che ciò che discuteremo riguardo a Fiera non è un caso isolato, un’eccezione
irripetibile, un unicum di cui i
cittadini del quartiere debbono farsi carico per il bene della città, ma è un
metodo che questa Giunta vuol riproporre in modo generalizzato per l’intera
città e che quindi l’opposizione dei cittadini del quartiere è il banco di
prova per rifiutare un modello che non va bene per l’intera città.
Di
quanto voi pensiate al riguardo evidentemente Sindaco e Giunta pensano che
importi poco: noi che la pensiamo diversamente siamo qui a discuterne con voi.
Ma che forse
non sono esotiche tutte le case altissime, i “grattacieli”, che van sorgendo
nella capitale di quello che fu il Ducato di Milano ?
Vuoi le
compagini di piazza San Babila e del Piazzale della Repubblica, vuoi le moli
che singole e subitanee sbarrano il cielo a chi esce dalla Porta Venezia o a
chi si avvia alla Porta Vittoria, son barbarismi che fanno simile la nostra
città a una delle capitali sud-americane.
(...)
Perché questo
infittimento del centro urbano in un Ducato che si estende pressoché omogeneo
tra Adda e Tesino, con una gittata sino ai ponti sui due fiumi che non si
scosta molto dai 30 chilometri ?
(...)
Nella città
occorre premettere delle regolette elementari ed applicarle subito: non più
case superanti l’altezza regolamentare di un tempo (24 metri), non più
l’infittimento dell’abitato in confronto a quello che era prima della rovina di
guerra...
E dal concetto
fondamentale che il capoluogo potenzia il contado e il contado potenzia il
capoluogo, sorgerà quello spirito metropolitano che occorre eccitare perché la
metropoli si attui in forme civili, senza esotismi e senza arcaismi.
G. de Finetti, Il
Ducato di Milano come ambito della metropoli moderna, in Almanacco della
Famiglia meneghina, 1950
Poggiando su
questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un
nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro
mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la
città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del
Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha
distrutta.
...le case non
hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri, ma neppure di
salire più in alto
...la tendenza
a sopralzare il limite di altezza degli edifici, a stimolare per tal mezzo
l’attività edilizia e la valutazione complessiva della città, sarebbe erronea
ed anzi assurda.
G. de Finetti, Sulle
aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in Milano, costruzione di una città,
Hoepli, Milano 2002, p. 395.
Milano
potrebbe essere detta la città più inquieta, più incerta, più casuale d’Italia.
Milano
rimane anche in sede scolastica esempio del come non debba essere fatta una
città di pianura.
Se
ti metti a cercare le cause del male, le trovi nell’assenza di un pensiero
autoctono, nella natura di città convegno: convegno di mercanti, tappa di eserciti;
città importatrice di mode estranee, non città-madre.
G. de Finetti, Dattiloscritto per il programma di un Istituto di studi regionali e
urbani, ora in Milano, costruzione di una città, op. cit., pp. 495-498.
Desidero innanzitutto ringraziare sinceramente questo Consiglio comunale, e soprattutto le forze politiche che hanno richiesto e ottenuto la convocazione di questa seduta aperta ai contributi esterni, per l’onore che mi si offre di lasciare a futura memoria nei verbali di questa assemblea civica, traccia di una riflessione sulla vicenda del riutilizzo dell’area sino ad ora occupata dalla Fiera di Milano, che è espressione di un dissenso civile circa il fatto che questo Consiglio si sia occupato solo marginalmente della questione e solo per ratificare decisioni già prese in ambiti decisionali molto ristretti, dove non sono tenute in alcun conto le ragioni degli interessi collettivi dell’ambito urbano e dei cittadini.
Ho già avuto questo onore il 22 novembre 2001, quando intervenni ad un analoga seduta aperta sul progetto per Garibaldi-Repubblica, e anche allora, come farò oggi, ebbi a richiamare l’eredità intellettuale di una grande figura di studioso, progettista e pubblico amministratore milanese, Giuseppe de Finetti, che nelle sue riflessioni e nelle sue proposte si occupò, non a caso, di entrambe queste aree così strategicamente importanti nel configurare l’assetto complessivo della città ed il suo futuro.
Nelle osservazioni alla pubblicazione del PRG di Milano, presentate nel novembre del 1950 come assessore provinciale, sul Centro Direzionale diceva:”l’area destinata a questo nuovo <<centro>> è modesta modesta: circa quella del Parco, meno di 40 ettari. Il Parco appare ampio, perché è quasi del tutto vuoto con pochi viali e, per ora, senza grattacieli attorno(…). Ma immaginatevi uno spazio equivalente con 20 o 30 grattacielini e supponete che le 4 arterie maestre dette <<assi attrezzati>> dovessero funzionare davvero; vi pare che tarderebbe a lungo la saturazione ?”[1].
Alla Fiera, di cui fu membro del Consiglio direttivo come rappresentante della Provincia, indicava come compito nel riassetto delle sue aree quello“di consentire alla tesi che ne farà una piccola città-pilota della città maggiore” lungo quella direttrice di nord-ovest dove immaginava “la più linda, la più bella, la più ragionata città lombarda, la città del secolo nuovo, documento di una grande rinascita civile”[2].
“Poggiando su (un) caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un
nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro
mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la
città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del
Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha
distrutta.
...le case non hanno ragione d’essere più
basse di quanto lo fossero ieri, ma neppure di salire più in alto
...la tendenza a sopralzare il limite di
altezza degli edifici, a stimolare per tal mezzo l’attività edilizia e la valutazione
complessiva della città, sarebbe erronea ed anzi assurda”[3].
Anche le decisioni che hanno portato, oggi, alla definizione dei Piani di intervento su queste due aree coi loro altissimi edifici pretendono di ascriversi ad una ispirazione che, qui a Milano, ha voluto assumere la denominazione di Nuovo Rinascimento Urbano.
Ma, se voi chiedete ragione delle scelte operate dai piani di intervento su queste due aree al responsabile comunale dell’istruttoria dei PRU, arch. Oggioni, o al consulente del Comune per il Documento di Inquadramento urbanistico, prof. Luigi Mazza, come mi è capitato di fare recentemente in pubblici dibattiti, essi declinano ogni responsabilità al riguardo, allargano le braccia sconsolati e rispondono che sono il frutto di decisioni di pura opportunità politica, al di fuori qualunque criterio di razionalità urbanistica.
Non chiedo che crediate alle mie parole: mi permetto di suggerirvi che li convochiate ad un supplemento di udienza, per aver conferma di ciò.
Mi pare quindi che in questa accezione che rischia di vivere Milano, con Nuovo Rinascimento Urbano si debba intenderne piuttosto il carattere di decisione élitaria ed antidemocratica, garantita unicamente dal placet del principe, che non quello del rapporto illuminato tra potere e razionalità intellettuale.
Se vogliamo che così non sia, permettetemi di illustrarvi, quindi, più direttamente le contraddizioni del Piano di intervento in esame oggi.
L’integrazione all’Accordo di programma che nel 1994 sancì la decisione assunta tra i Comuni interessati, la Provincia di Milano, la Regione Lombardia e la Fiera di Milano del trasferimento della maggior parte delle attività fieristiche sull’area dell’ex raffineria di Rho-Pero, vi ha ulteriormente introdotto, nel febbraio 2003, una Variante al Piano Regolatore del Comune di Milano che definisce le modalità di riutilizzo dell’area dismessa dagli usi fieristici, sino a quel momento ancora destinata ad attività fieristiche.
Un Accordo di programma è però una procedura accelerata e facilitata anche negli obblighi da rispettare, consentita solo per realizzare funzioni pubbliche di interesse regionale (quali appunto la rilocalizzazione delle funzioni fieristiche a Rho-Pero).
Questa Variante consente, invece, l’edificazione sull’area lasciata libera dalla Fiera di circa 900.000 mc di case ed uffici privati su circa 100.000 mq di superficie fondiaria con la cessione ad uso pubblico di un’area di circa 150.000 mq. L’edificabilità territoriale complessiva (1,15 mq/mq) è, cioè, circa il doppio di quella consentita ai Programmi integrati di riutilizzo (PRU) in tutte le altre aree dismesse a Milano (0,65 mq/mq), ma con una dotazione di spazi pubblici che è circa la metà di quella dovuta per la quantità edificatoria consentita.
Inoltre in quella Variante il Comune non ha prescritto limiti di altezza e densità edilizia degli edifici, né su come dovesse essere distribuita la superficie pubblica.
Alcuni cittadini del quartiere, prevedendo gli esiti disastrosi di questa decisione, hanno impugnato al TAR Lombardia questa procedura e questi contenuti, e il giudizio è pendente perché, responsabilmente, essi non hanno voluto forzarne i tempi, nella speranza che prima o poi ci fosse ancora spazio per un confronto con le decisioni della Amministrazione civica, come forse è possibile fare oggi.
Invece Fiera, prima ancora che i contenuti di questa Variante fossero comunicati alla Giunta e al Consiglio comunale, tentando di condizionare il confronto con una politica dei fatti compiuti, ha pubblicato sulla stampa economico-finanziaria specializzata un invito agli aspiranti acquirenti a presentare progetti per attuare quelle previsioni, indicando come criterio di scelta quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa[4].
Già allora obiettai che non era chiaro se con ciò si dovesse intendere quella più vantaggiosa complessivamente (cioè, la remunerazione della rendita fondiaria al proprietario dell’area + il valore dei servizi pubblici proposti) o più vantaggiosa per il solo proprietario dell’area.
Fiera indirettamente rispose alla fondatezza di questa obiezione modificando in corso di svolgimento il proprio bando di offerta di vendita, che prevedeva inizialmente una valutazione preventiva del prezzo di acquisto offerto, e comunicando che, invece, avrebbe preventivamente selezionato un gruppo di progetti ritenuti accettabili, procedendo poi all’apertura delle offerte economiche e scegliendo infine quella di maggior importo. Anche così, tuttavia,non viene affatto perseguito un criterio di maggior vantaggio complessivo.
Fiera avrebbe potuto farlo, invece, scegliendo un criterio che, ferme restando la base d’asta ritenuta necessaria alle esigenze finanziarie indotte dalla realizzazione del polo esterno e alla stima di valore dell’area e le dotazioni pubbliche prescritte, basasse la gara sul ribasso delle volumetrie progettate rispetto a quelle massime consentite.
Ma così Fiera non ha voluto fare, trasformando l’abnorme densità edilizia che grava sull’area e sul quartiere interamente in surplus di rendita immobiliare.
A quali finalità, scopi ed obiettivi esso sarà destinato da Fondazione Fiera, che ha già bilanci in forte attivo[5], non è dato sapere.
Fiera non ha mai reso noto ufficialmente quale fosse la base d’asta richiesta agli aspiranti acquirenti, anche se indiscrezioni la indicano attorno ai 250 milioni di Euro.
Tra i progetti presentati il Consiglio di Amministrazione di Fiera ne ha selezionati cinque, scegliendo infine quello che le garantiva la più alta remunerazione, cioè 523 milioni di Euro.
Se fosse vero che la base d’asta era di 250 milioni, se ne dedurrebbe che ferma restando questa e riducendo proporzionalmente la volumetria, se ne sarebbe potuta realizzare meno della metà di quella assentita. Ma anche se vogliamo stare a dati più accertabili, cioè l’offerta più bassa tra quelle selezionate da Fiera pari a 378 milioni, il criterio della riduzione proporzionale dei volumi porterebbe ad un indice di 0,83 mq/mq ed a una volumetria complessiva di 635.000 mc, che con la prevista cessione del 50% dell’area consentirebbe di soddisfare almeno le dotazioni pubbliche locali di 26,5 mq/ab prescritte dalla L.R. 51/75 allora in vigore[6].
Una quantità edificatoria così elevata su un’area così ristretta (1,15 mq/mq di densità territoriale e quasi 9 mc/mq di densità fondiaria!) non può realizzarsi che con edifici molto alti e ravvicinati. Tanto ravvicinati che quasi tutti i progetti hanno dovuto utilizzare l’area pubblica inframmezzandola agli edifici privati per distanziarli almeno un po’.
Così fa, quindi, anche il progetto CityLife (che fa capo alle finanziarie di Generali e RAS, all’immobiliare milanese Progestim di Ligresti, alla romana Lamaro della famiglia Toti e alla spagnola LAR), progetto prescelto da Fiera, e che prevede tre torri di 220, 180 e 150 metri di altezza e una corona di edifici che vanno dai 50 ai 90 metri (da 14 a 23 piani), prospettanti direttamente sugli edifici circostanti alti al massimo 8-10 piani.
D’altra parte, come si è detto, il Comune non aveva preventivamente indicato a Fiera alcuna impostazione progettuale di tutela dell’interesse pubblico, né – quindi – questa agli aspiranti acquirenti e ai loro progettisti.
Eppure il problema urbanistico del quartiere Fiera era noto da tempo alla miglior cultura urbanistica milanese, da quando la Fiera di Milano, si insediò nel 1922 sull’area dell’ex Piazza d’Armi, la cui giacitura aveva un orientamento difforme dai tessuti edilizi circostanti perché il Piano Beruto nel 1899 la disegnò secondo un’astratta simmetria con la giacitura del Cimitero Monumentale rispetto all’asse di corso Sempione. Essa ha, quindi, storicamente rappresentato un problema urbanistico irrisolto per la direttrice nord-ovest della città, provocando inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico che di un corretto assetto insediativo urbano.
Nel tempo numerosi studi e progetti cercarono di ovviare a tali inconvenienti proponendo riassetti urbanistici che ricomponevano l’andamento di quel brano di città rispetto al tessuto edilizio circostante: così nel 1937-38 con il Progetto di Concorso per la Nuova Fiera al Lampugnano di Bottoni, Lingeri, Mucchi, Terragni, nel 1938 con il Progetto Milano Verde degli architetti Albini, Belgiojoso, Bottoni, Gardella, Mucchi, Peressutti, Putelli e Rogers, nel 1945 con il Piano AR, tra il 1946 e il 1951 con i progetti di de Finetti su incarico del Consiglio di amministrazione della Fiera.
Una traccia di continuità con tale atteggiamento è reperibile persino nello schema della cosiddetta T rovesciata proposta dal Documento di Inquadramento urbanistico approvato dal Comune di Milano nel giugno 2000, con l’indicazione preferenziale agli interventi dell’orientamento lungo l’asse NO-SE.
Questo orientamento preferenziale dell’impianto progettuale secondo gli assi dei tracciati da viale Berengario a via Mascheroni e da via Gattamelata a via Pagano e lungo la loro perpendicolare è invece ignorato dalla maggior parte dei progetti proposti, cui non era stata data dal Comune alcuna indicazione in tal senso; quasi tutti si limitano, quindi, ad erodere il vecchio recinto con nuovi edifici posti in corrispondenza della giacitura degli isolati circostanti e preesistenti, che hanno orientamenti differenziati e sui quali le nuove edificazioni finiscono così per incombere a causa dell’enorme scarto dimensionale in altezza; l’area del verde pubblico è ciò che residua da questa incongrua erosione, anche perché il verde è usato principalmente come elemento di diluizione dell’enorme densità fondiaria e di distanziamento tra i nuovi edifici privati in progetto.
Tuttavia ciò che non è stato fatto dal Comune in sede di Variante può e deve essere fatto in sede di esame del progetto di Piano di Intervento presentato da Fiera per conto del suo promissario acquirente.
Occorre, innanzitutto, che il volume consentito venga riportato a quello previsto per tutti gli altri PII del Documento di Inquadramento Urbanistico (0,65 mq/mq), come avrebbe dovuto essere se non si fosse utilizzata illegittimamente la scappatoia dell’Accordo di Programma.
Inoltre, è necessario che il verde pubblico non venga utilizzato per distanziare gli edifici privati (lasciandolo oltre tutto al buio delle loro ombre per gran parte dell’anno), ma venga mantenuto compatto (ciò che ne migliora la valenza in termini di vitalità della vegetazione ed effetti di termoregolazione dell’ambiente), per dare corpo ad un vero parco urbano – il mitico Central Park, auspicato e promesso dal Sindaco Albertini, ma del quale egli stesso in qualche deluso commento giornalistico ha dovuto ammettere di non trovare traccia nel progetto proposto.
Ciò è tecnicamente possibile addirittura con le stesse volumetrie previste dalla Variante, come dimostra uno dei progetti selezionati da Fiera e non scelto solo per la minor convenienza economica offertale.
Se si chiede a Fiera, indipendentemente da chi sia l’acquirente prescelto, di impostare il confronto col Comune a partire da un simile impianto progettuale, Fiera replica che non può, perché quella soluzione appartiene ad un aspirante acquirente (che l’ha fatta elaborare, assumendosene i relativi costi progettuali), con il quale non ha sottoscritto il compromesso di vendita dell’area.
E così si scopre che, in questa frenesia di privatismo che il Comune ha consentito a Fiera delegandole totalmente l’impostazione dei progetti, nemmeno le idee sono più di libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico: esse, in questo modo, appartengono, invece, a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono liberi di discutere solo le impostazioni progettuali dell’acquirente con cui il proprietario dell’area ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato a Fiera – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico.
E’ comprensibile e legittimo che Fiera tuteli prioritariamente i suoi interessi economici, non badando a questi aspetti; non è comprensibile né legittimo che il Comune subordini il proprio ruolo a quegli interessi anziché tutelare prioritariamente gli interessi della città e dell’ambiente.
Sinora questo ruolo è stato surrogato dall’azione spontanea dei cittadini del quartiere: quando vedremo fare il proprio dovere da parte dei nostri amministratori pubblici ?
Il primo passo spetta a voi, oggi, signori consiglieri comunali, impegnando la Giunta a non presentare all’approvazione il PII proposto da Fiera per il vecchio recinto prima che tutti gli aspetti critici sopra illustrati siano compiutamente discussi e risolti.
Dimostrereste così che un’altra Milano è possibile: quella in cui le ragioni della civiltà e quelle del profitto possono convivere senza che queste ultime prevarichino ogni altro aspetto nei valori che la città persegue.
[1] G. de Finetti, Milano:costruzione di una città, Hoepli,2002, pp. 605-606
[2] G. de Finetti, Programma
della Società Aeroporti di Lombardia, in Archivio de Finetti, Parma
[3] G. de Finetti, Sulle
aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in Milano, costruzione di una città,
Hoepli, Milano 2002, p. 395.
[4]Già il 4 aprile 2003, Fiera di Milano ha, infatti, comunicato agli aspiranti acquirenti la
superficie da trasformare, il volume edificabile, l’assenza di limiti di
concentrazione fondiaria, di altezza e distanza tra gli edifici con un avviso
pubblicato sui maggiori quotidiani economico-finanziari internazionali, mentre
solo il 15 aprile successivo la Giunta comunale ha fatto proprie tali
determinazioni, incaricando il Sindaco di informarne il Collegio di vigilanza
sull’accordo di programma (Comune, Provincia, Regione e la stessa Fiera di
Milano), che il 30 settembre le ha accolte pedissequamente e il 14 novembre le
ha inserite nell’accordo di programma, che il Consiglio comunale ha ratificato,
senza possibilità di discussione o modifica, il 9 dicembre.
[5]
La Fondazione è già molto “ricca”: ha un capitale
proprio di 315 milioni di euro, e rilevanti plusvalenze potenziali, come quella
sulla sua partecipazione in Fiera Milano Spa, che agli attuali prezzi di borsa
vale 160 milioni in più del valore contabile iscritto a bilancio, oltre a
quelle sugli immobili ed altre.
[6] Nell’attuale progetto CityLife la quantità di verde e
sport è di 16,5 mq/ab, comunque inferiore ai 18 mq/ab disposti dall’art. 9 c. 3
della L.R. 12/2005