COMUNICATO STAMPA

 

Ma che forse non sono esotiche tutte le case altissime, i “grattacieli”, che van sorgendo nella capitale di quello che fu il Ducato di Milano ?

Vuoi le compagini di piazza San Babila e del Piazzale della Repubblica, vuoi le moli che singole e subitanee sbarrano il cielo a chi esce dalla Porta Venezia o a chi si avvia alla Porta Vittoria, son barbarismi che fanno simile la nostra città a una delle capitali sud-americane.

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Perché questo infittimento del centro urbano in un Ducato che si estende pressoché omogeneo tra Adda e Tesino, con una gittata sino ai ponti sui due fiumi che non si scosta molto dai 30 chilometri ?

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Nella città occorre premettere delle regolette elementari ed applicarle subito: non più case superanti l’altezza regolamentare di un tempo (24 metri), non più l’infittimento dell’abitato in confronto a quello che era prima della rovina di guerra...

E dal concetto fondamentale che il capoluogo potenzia il contado e il contado potenzia il capoluogo, sorgerà quello spirito metropolitano che occorre eccitare perché la metropoli si attui in forme civili, senza esotismi e senza arcaismi.

 

G. de Finetti, Il Ducato di Milano come ambito della metropoli moderna, in Almanacco della Famiglia meneghina, 1950

 

Poggiando su questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.

...le case non hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri, ma neppure di salire più in alto

...la tendenza a sopralzare il limite di altezza degli edifici, a stimolare per tal mezzo l’attività edilizia e la valutazione complessiva della città, sarebbe erronea ed anzi assurda.

 

G. de Finetti, Sulle aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in Milano, costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 395.

 

 

Con la pubblicazione, il 2 febbraio scorso, da parte del Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni del decreto di approvazione della variante al PRG che trasforma il recinto storico della Fiera di Milano in area destinata a residenza e servizi, con edificabilità di circa 900.000 mc su un’area di 125.000 mq e con la cessione ad uso pubblico di altri 125.000 mq, si sarebbe concluso nelle intenzioni delle pubbliche amministrazioni che se ne sono occupate (Comune e Provincia di Milano, Regione Lombardia) il loro ruolo di indirizzo e conformazione urbanistica, in realtà sviluppatosi quasi totalmente al di fuori di qualsiasi controllo pubblico. Fiera di Milano ha, infatti, comunicato agli aspiranti acquirenti la superficie da trasformare, il volume edificabile, l’assenza di limiti di concentrazione fondiaria, di altezza e distanza tra gli edifici con un avviso pubblicato sui maggiori quotidiani economico-finanziari internazionali già il 4 aprile 2003, mentre solo il 15 aprile successivo la Giunta comunale ne ha informato il Collegio di vigilanza sull’accordo di programma (Comune, Provincia, Regione e la stessa Fiera di Milano), che le ha accolte pedissequamente il 30 settembre, le ha inserite nell’accordo di programma il 14 novembre, le ha fatte ratificare dal Consiglio comunale, senza possibilità di discussione o modifica, il 9 dicembre.

D’ora in poi, la questione sarebbe tutta e solo nelle mani del Consiglio di amministrazione di Fondazione Fiera di Milano che, con l’ausilio di esperti fiduciari di cui non verrà comunicato il nome né le qualifiche, esaminerà le proposte degli aspiranti acquirenti (AIG Lincoln, Hines-Techint-ING-Pizzarotti, Generali Properties-RAS, Borio Mangiarotti-CILE, Pirelli Real Estate-Vianini-Unicredit, Risanamento-IPI-Fiat Engineering-Astaldi) elaborate dai propri progettisti incaricati (Chipperfield-Perrault-FOA-Skidmore, Owing & Merril; KPF-Arup-Sarno; Isozaki-Libeskind-Hadid; Buffi-Nicolin-Rota-Citterio-Ranzani; Renzo Piano Building Workshop; Foster-Ghery-Moneo-Zucchi), di cui non verrà rivelato il contenuto sino alla scelta dell’assegnatario, sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa per Fiera.

Il tutto, come si vede, con la assoluta segretezza e discrezione che si conviene negli affari economici importanti, ma come non si conviene affatto nelle questioni che riguardano la città e i cittadini.

In realtà il problema urbanistico del quartiere Fiera è noto da tempo alla miglior cultura urbanistica milanese:

la Fiera di Milano, si insediò nel 1922 sull’area dell’ex Piazza d’Armi, la cui giacitura aveva un orientamento difforme dai tessuti edilizi circostanti perché il Piano Beruto nel 1899 la disegnò secondo un’astratta simmetria con la giacitura del Cimitero Monumentale rispetto all’asse di corso Sempione. Essa ha, quindi, storicamente rappresentato un problema urbanistico irrisolto per la direttrice nord-ovest della città, provocando inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico che di un corretto assetto insediativo urbano. Nel tempo numerosi studi e progetti cercarono di ovviare a tali inconvenienti proponendo riassetti urbanistici che ricomponevano l’andamento di quel brano di città rispetto al tessuto edilizio circostante: così nel 1937-38 con il Progetto di Concorso per la Nuova Fiera al Lampugnano di Bottoni, Lingeri, Mucchi, Terragni, nel 1938 con il Progetto Milano Verde degli architetti Albini, Belgiojoso, Bottoni, Gardella, Mucchi, Peressutti, Putelli e Rogers, nel 1945 con il Piano AR, tra il 1946 e il 1951 con i progetti di de Finetti su incarico del Consiglio di amministrazione della Fiera. Una traccia di continuità con tale atteggiamento è reperibile persino nello schema della cosiddetta T rovesciata proposta dal Documento di Inquadramento urbanistico approvato dal Comune di Milano nel giugno 2000.

Quando, nel 1994, l’Accordo di Programma tra Ente Autonomo Fiera di Milano (allora di diritto pubblico, successivamente trasformato in ente privato), Regione Lombardia e comuni di Milano, Rho e Pero, unitamente alla realizzazione di un nuovo polo fieristico esterno nel territorio di questi due ultimi comuni, fissò la decisione di dismettere dagli usi fieristici la superficie di 314.000 mq corrispondente al recinto storico, si presentò l’occasione concreta per dare coerente soluzione a quella irrisolta questione.

Si trattava, ovviamente, di avviare una approfondita discussione sui contenuti degli strumenti di indirizzo urbanistico. Di fatto, tutti questi aspetti sono stati demandati dall’Amministrazione comunale alle decisioni di Fondazione Fiera Milano (ora ente di diritto privato), che con un documento definito “Procedura negoziata privata per la cessione di parte dell’area del quartiere fieristico storico”, antecedente alle decisioni delle istituzioni pubbliche, ha ridotto di 60.000 mq l’area di dismissione, impedendo la rettifica del tracciato di viale Scarampo, si è assegnata un indice territoriale quasi doppio rispetto a tutti gli altri ambiti di trasformazione urbanistica attuati a Milano, ha dimezzato le aree di cessione per spazi pubblici, non ha fissato limiti di concentrazione fondiaria, di altezza e distanza tra gli edifici, puntando esclusivamente alla massima valorizzazione immobiliare dell’area.

Come si è detto, non ci verranno fatti conoscere i contenuti dei progetti presentati sino a decisione avvenuta. Tuttavia l’analisi dei dati della variante ci consente di prevedere quali saranno le inevitabili conseguenze della concentrazione di una densità territoriale così elevata (1,15 mq/mq), su una superficie fondiaria così ristretta (125.000 mq). Se, per tener fede all’estemporanea immagine del Central Park ambrosiano, tanto cara al Sindaco Albertini, si tiene rigorosamente separata la superficie di circa 125.000 mq a destinazione pubblica dalla superficie fondiaria, anche riducendo al minimo lo sviluppo della rete viaria necessaria (tre assi viari di 15 metri di calibro, su un lotto di circa 300 metri di lunghezza), la densità fondiaria non potrà essere inferiore a quasi 8 mc/mq, e il volume si distribuirà su 60 torri da 40 metri di altezza, o 30 torri di oltre 70 metri o 15 torri di oltre 140 metri.

Quale sarà l’effetto sul tessuto edilizio preesistente e circostante, che ha altezze medie dalla metà ad un ottavo dei nuovi edifici, a seconda della soluzione adottata, è facilmente desumibile dagli schemi planivolumetrici che ho elaborato per illustrarne l’esito. A meno che i 125.000 mq di superficie pubblica vengano utilizzati per diradare questa incredibile concentrazione volumetrica, inframmezzandoli alla superficie fondiaria.

Paradossalmente, in questo caso, anziché richiedere la cessione ad uso pubblico del 50% dell’area (motivata solo dall’immagine di una sorta di spartizione mezzadrile tra pubblico e privato, ma che non garantisce nemmeno gli standard minimi regionali di 26,5 mq/ab. e che comunque è la metà della superficie pubblica prescritta dagli standard urbanistici della variante), sarebbe meglio aumentare la superficie fondiaria, consentendo così l’utilizzo di soluzioni planivolumetriche più compatibili con il tessuto edilizio preesistente e circostante.

Ciò, ovviamente, richiederebbe un’idea chiara e pubblicamente dichiarata e condivisa di dove si intenderebbero ricollocare strategicamente le superfici pubbliche non cedute all’interno dell’area di intervento, su cui, invece, l’Amministrazione comunale ostinatamente tace.

I cittadini del quartiere Fiera, per niente convinti della bontà di affidare la definizione della trasformazione urbana della propria città “agli architetti più famosi del mondo” ingaggiati in maniera certamente non disinteressata “dai gruppi immobiliari più importanti del mondo”, come nelle cronache milanesi è stato servizievolmente riferito, il 28 aprile scorso hanno presentato al TAR un ricorso contro l’illegittimità di tale procedura, contando che in questo modo si possa riaprire una reale discussione che affidi alla decisione pubblica ciò che sinora é stato concordato in ristretti comitati di affari.