Il grattacielo è ancora
all'altezza?
Un intelligente articolo, da Il Sole 24 ore dell'11 luglio
2004, apre una riflessione seria sui nuovi miti dell'architettura urbana. Per
conquistare l'audience e inseguire la fama, architetti e politici distruggono
la città (e i promoter diventano più ricchi, a spese degli altri).
In attesa dell'annunciata mostra di settembre alla Triennale di
Milano, i milanesi che si troveranno a New York dal prossimo 16 luglio potranno
valutare in anteprima uno dei tre nuovi grattacieli che nel 2014, se il Comune
darà il via al progetto, sorgeranno nell'area della Fiera. Basterà andare nella
sede temporanea del MoMA al Queens dove, fino a settembre, resta aperta la
mostra «Tall Buildings», una finestra sul panorama degli skyscraper di ultima
generazione, costruiti o in via di realizzazione in quest'ultimo decennio, da
New York a Pechino, da Londra a Hong. Kong, a
Chicago ò a Shanghai. Infatti, tra i futuri supercolossi raccolti da Terence Riley
e Guy Nordenson per rinfrescare un mito appannato dall'attacco kamikaze dell'
11 settembre 2001, spicca quello progettato dal giapponese Arata Isozaki -
capofila della cordata Citylife vincitrice del concorso milanese per il
cosiddetto "polo urbano" della Fiera - nel nodo della stazione di
Ueno a Tokio. Il "materasso" abitato, sorretto da quattro stampelle
metalliche in diagonale, che chiude la "trilogia" milanese della saga
internazionale firmata da Daniel Libeskind e Zaha Hadid, non è altro infatti
che una copia conforme della megastruttura giapponese, che finisce dunque col
confermare gli interrogativi di chi ha tacciato di resa al sensazionalismo
mediatico l'annunciata stagione dei grands travaux milanesi.
Per quanto focalizzata su un ristretto campionario di venticinque esempi; la
mostra di New York è da questo punto di vista molto istruttiva: indifferente al
tema del disegno urbano e a tutto ciò che comporta la problematica
dell'edificio alto in tema di consapevolezza energetica, qualità ambientale e
di scenario sociale, l'analisi dei curatori si sofferma sull'ambigua
"metafora", descrivendone l'impatto sull'ambiente urbano in termini
di «ambizioni scultoree nella tradizione dei colossi dell'antichità». I
"cartocci" di Gehry per il «New York Times» a Manhattan, il
"vibratore" di Foster nel cuore di Londra; i "bicchieri
sovrapposti" di SOM per la Jin Mao Tower a Shanghai o la "torre
tortile" di Calatrava a Malmö sono in tal senso prototipi di una ricerca.
che alla lettura del contesto antepone la concentrazione sulla sfida
strutturale, il brivido del "limite" tipologico, il raggiungimento
dell'originalità del "segno". Certo, la storia del grattacielo, sin
dalle sue origini nel XIX secolo, è sempre vissuta sul filo di un paradosso,
dove l'ansia di prestazione d'altezza si sposa senza contraddizioni con la
richiesta della trovata pubblicitaria e la giustificazione della concentrazione
puntuale. si scontra con gli effetti opposti dèlla congestione urbana. Se la
cultura americana del primo Novecento vi riconosceva «il vero simbolo di un
popolo strenuo e avventuroso, fiducioso nella propria forza e nel proprio
potere», quella contemporanea non può non misurarsi con il disincanto e con la
diffidenza verso la teatralizzazione di miti artificialmente creati per
mobilitare l'opinione pubblica e spostare il rito della democrazia dal piano
razionale a quello simbolico ed emozionale.
Proprio la culla del grattacielo, New York; ne ha dato un'ampia dimostrazione
con il deludente dibattito sul destino di Ground Zero e con l'ancor più
risibile risposta al concorso per la riprogettazione delle torri gemelle di
Yamasaki, che ha messo in drammatica evidenza l'incapacità di elaborare simboli
come eventi collettivi, che non risultino fondati sulla base di una cultura,
condivisa.
A scala meno eclatante, il caso di Milano ne costituisce ulteriore conferma: da
una poco meditata omologazione agli stereotipi della modernità del XXI secolo
si è avanzato da più parti lo slogan martellante di una rinascita dell'orgoglio
urbano misurata dal numero dei suoi grattacieli e dalla eccentricità della loro
proposta formale, spostando così la discussione dal piano del progetto sul
futuro della città a quello ambiguo sul carisma dei simboli come motori di
sviluppo. Che tutto questo possa essere automaticamente considerato un nuovo
"Rinascimento" pare molto discutibile, soprattutto considerando che
nel "Rinascimento storico" l'Italia,delle corti esportava all'estero
la cultura del nuovo mentre oggi è costretta a riciclare nelle sue città quella
che gli ritorna dall'esterno. Naturalmente l'ibridazione dei contributi fa
parte della storia del gusto e contribuisce dà sempre alla complessa
stratificazione che è parte costitutiva della città europea. A patto di non
dimenticare però che il valore dei simboli si conquista sul campo della storia,
l'unica autorizzata a sancirli nella loro autenticità: la Torre Velasca è oggi
un segno che qualifica in maniera indelebile la Milano del dopoguerra; ma il
suo disegno finale fu l'esito di un tormentato iter progettuale alla ricerca di
una soluzione il più possibile appropriata. Né nacque da un'istanza mediatica
l'icona milanese del grattacielo Pirelli, alla cui forma esatta Gio Ponti
arrivò dopo molti tentativi e messe a punto, dal Predio Italia di San Paolo in
Brasile alla torre Lancia di Torino.