Milano, bellezza e grandi opere
Data di pubblicazione: 18.04.2005
Autore: Spada Maurizio
I grattacieli a Milano hanno una sola giustificazione: il potere
rozzo e senza strategie pubbliche che li promuove. Lo scrive la rivista dei
costruttori Dedalo, febbraio 2005 (f.b.)
Quando Dostojewski diceva che “la bellezza salverà il mondo”
si riferiva all’aspirazione alla bellezza dato che poi aggiungeva che essa è un
enigma ed il Creatore parla per enigmi. Alla stessa stregua per quanto riguarda
la bellezza di natura la poetessa americana Emily Dickinson in pochi versi
illuminanti affermava: “La bellezza non ha causa: esiste. Inseguila e sparisce.
Non inseguirla e rimane”.
I due grandi scrittori sottolineavano la velleità del tentativo di definire la
“bellezza” e la sua precarietà dato l’instabile equilibrio tra l’oggettivo ed
il soggettivo. Infatti questo termine più che denotare un concetto si riferisce
ad una costellazione di concetti. E tuttavia ogni epoca ed ogni cultura ha
sempre tentato di definirne una.
Quanto sia articolata e complessa la questione appare chiaro quando tutto
questo si applica alla città perchè in questo caso si intreccia con il potere.
La città è sempre stata il luogo fisico dei poteri fin dalla sua nascita e
ciascuno di questi ha sempre cercato di imporre una sua bellezza come segno
della sua presenza e della sua potenza. Come in tutti i campi anche in quello
estetico la cultura dominante cerca di far valere una sua visione ed un suo
gusto e tanto più il potere è autocratico e gerarchico tanto più si hanno
concezioni rigide e assolutiste. Per le antiche città guerriere bella era anche
la guerra e belli i monumenti che celebravano le gesta degli eroi e le
vittorie.
La grande teoria del Bello, dove tutto veniva definito in base a rapporti
geometrico matematici, derivata dalla cultura greco romana militarista tesa
alla ricerca di un ideale assoluto, ha dominato la cultura ufficiale
occidentale per circa duemila anni portando in sé un germe di necrofilia e
staticità.
Nel Rinascimento questa ricerca del bello ideale diventò la finalità stessa del
governo della città e ne decretò al tempo stesso la grandezza, da cui l’
importanza data ai grandi artisti in quel periodo. Da allora in vario modo il
concetto di decoro urbano ha risentito di questa tradizione.
In epoca moderna, nel tentativo di sganciare il bello dal potere borghese, si è
cercato di minarne i principi. Funzionalismo e razionalismo non hanno forse
messo in discussione la prospettiva centrale e la simmetria? Questo tentativo
teso a trovare una bellezza più “democratica” non sempre ha funzionato. Anzi, a
parte i movimenti del primo razionalismo, ha prodotto semplificazioni e
riduzionismi massificanti, in particolare dove regimi totalitari hanno
sfruttato la rottura con la tradizione e l’aspirazione al futuro per produrre
forme oppressive, banali e ossessive.
Oggi il libero mercato, dove il potere del denaro in sé finisce per prevalere
sui valori umanistici, ha provocato dei veri disastri in assenza di regole.
Questa “deregulation” ha prodotto l’arbitrio di poteri, visibili e invisibili,
senza etica e senza estetica, dominati dalla brama di apparire ed asserviti ad
una tecnologia che è diventata essa stessa un potere autocratico. Così il
concetto di bellezza si è confuso con quello di spettacolarizzazione di
quest’ultima che nel contempo ha ingigantito le sue possibilità. La
globalizzazione e lo sviluppo dei media hanno determinato la omologazione
estetica verso il basso di tutte le aree urbane di recente formazione.
Questo si nota in particolare a Milano, città degli affari e dell’economia
rampante. Dopo aver subito uno sviluppo caotico negli anni 60 e 70, che ha
generato il problema delle periferie degradate e da riqualificare, negli ultimi
anni invece di rispondere alle esigenze di qualità ed identità, concetti che si
sposano anche con la tradizione, il contesto territoriale e la valorizzazione
del luogo, ha voluto seguire, con i progetti delle grandi opere, la
internazionalizzazione di questa bellezza dell’apparire. Ciò contrasta con una
estetica dei veri bisogni dell’abitare e crea nuovi problemi anziché risolvere
i vecchi, soprattutto quelli legati al traffico, produce anche nuovi stimoli ma
senza creare le occasioni per soddisfarli. Si genera così una città schizogena
dove si perde la capacità di identificarsi con un luogo e di sentirlo amico,
così tesi alla ricerca di nuovi spettacoli si finisce per perdere il senso del
proprio vivere quotidiano. È anche per questo motivo che Milano continua a
perdere abitanti, soprattutto giovani.
La scelta di spingere in senso verticistico la costruzione dei nuovi edifici
per le aree della ex Fiera, di Garibaldi-Repubblica e per le nuove sedi
regionali e comunali è generata da questo spirito che è dominatorio e
colonialistico. Tra l’altro si reclutano con concorsi a preselezione, chiusi
così alle nuove leve, famosi studi di architetti stranieri (come se l’Italia
fosse terra di sottosviluppo culturale) per garantirsi l’approvazione mediatica
ed un consenso acritico.
Quando il sindaco Albertini si vanta e scrive a proposito del concorso dell’ex
Fiera, vinto dal gruppo Hadid, Isozaki e Libeskind che ha intitolato, guarda
caso, il suo progetto “Turris Babel”, che finalmente Milano è ritornata ai bei
tempi dei Giò Ponti, del boom economico quando si credeva nello sviluppo e nel
futuro, gli si potrebbe rispondere con quanto era emerso in un dibattito del
1954 intitolato “Il problema dei grattacieli di Milano”.
Cinquant’anni fa, proprio mentre si costruiva il grattacielo Pirelli e si
ultimava la Torre Velasca, il Collegio degli Ingegneri di Milano oganizzava un
convegno con i grandi costruttori e progettisti dell’epoca (i Clerici, i
Cecchi, i Gadola...) per uno scambio di opinioni su quella “moda” delle
costruzioni in altezza. Nessuno dei relatori risultò acriticamente favorevole
anche se ne ammetteva la possibilità tecnologica. In particolare il prof.
Chiodi affermava: “A New York la fungaia di grattacieli è sorta in un primo
tempo per difetto di regolamentazione, per un eccesso di libertà costruttiva e
per condizioni particolarissime. La punta di Manhattan è il centro degli affari
costretto e circondato da due bracci di mare ... Oggi però anche a New York si
lamentano delle conseguenze di questi eccessi edilizi. A Milano le condizioni
non sono le stesse: Milano non ha quelle dimensioni ed è una città di pianura.
Le necessità tipiche di New York non sussistono”. Come si può notare anche
cinquant’anni fa le considerazioni che le persone di buon senso facevano circa
la smania di costruire grattacieli a Milano erano improntate alla critica di
voler stravolgere la identità milanese per copiare una realtà newyorkese che
aveva senso solo là. Perché dunque oggi l’amministrazione milanese insiste su
questa strada per di più senza un piano direttore e in modo episodico e
dilettantistico? Oltre alla evidente volontà di accontentare potenti gruppi
economici, come si diceva, c’è anche l’insensibilità estetica, o meglio una
cattiva educazione estetica che confonde bellezza con grandezza e questo è
sempre accaduto in tutte le epoche da parte di un potere che vuole imporre la
sua ingombrante presenza anche alle generazioni future che si troveranno a
dover gestire queste scelte. Si sa che ai tempi dell’antica Roma ogni città
della provincia cercava di imitare la capitale dell’impero, con il circo, le
terme, gli archi trionfali ed il foro così da sovrapporsi alla cultura ed alle
usanze locali.
Ma la bellezza e l’interesse appartengono a quelle città che hanno mantenuto la
loro identità legata al territorio ed alla vita che da lì si sviluppa. Infatti,
come in psicologia tutti sanno che non si può essere se stessi se non si parte
dalle proprie origini, così anche per quanto riguarda le città e l’estetica non
si ha piena maturazione se non si prescinde dall’invidia del potere e non si
accede al rispetto per la propria specificità.
Riprendendo poi in considerazione il progetto vincitore per l’area ex Fiera,
firmato dalle star internazionali citate, appare evidente la sfida tecnologica
e l’esibizionismo propagandistico soprattutto nell’edificio “storto”: che oggi
sia possibile anche sfidare, in apparenza, le leggi della statica non è una
novità, del resto nei parchi dei divertimenti abbiamo esempi anche più
clamorosi, ma oggi di questi segni “forti” siamo saturi e forse era meglio
limitarsi tanto più che questo rende ancora più evidente il carattere commerciale
e pubblicitario di questi edifici, con poi tutti i problemi urbanistici, legati
principalmente alla congestione, che renderanno ancora più in vivibile la
nostra città.