L’operazione immobiliare
pirelliana alla Bicocca rappresentò per la prima volta a quella scala e con
quelle quantità una scelta di espansione urbana fuori di qualsiasi piano o
quantomeno di un’idea di città manifestata dagli amministratori pubblici e
discussa, così da comprovare che gli interessi generali degli abitanti e dei
frequentatori giornalieri esigessero una vastissima urbanizzazione proprio in
quel punto. Valse soltanto l’incontro fra il potere forte dell’industriale, una
volta maestro di produzione / profitto capitalistici e ora disceso ben armato
nel campo della rendita finanziaria / fondiaria, e il potere debole – verso i
forti – di una giunta comunale priva di un sentimento elevato del progetto
pubblico, dunque propensa alla subalternità. Ma oggi, di fronte all’esplosione
come di shrapnel di altri progetti qua e là nel territorio milanese,
l’operazione di Tronchetti Provera che potette sembrare toppo grande sotto ogni
riguardo per essere ripetibile a chi non sentisse nemmeno il profumo di quanto
d’altro ci fosse nel pentolone milanese messo a sobbollire sull’angolo buono
del fornello, sembra appena l’introduzione di un’opera contemporanea in più
atti dove molte voci cantano in coro babelico il funerale delle regole
dell’urbanistica e, se è per questo e ancor peggio, dell’architettura.
Nuove Milano: estranee
non solo a un’idea, a un principio di metropoli organizzata, ma a ogni legame
con la città reale, con il retaggio storico, con quanto del suo spirito non è
rimasto schiacciato sotto il cinquantennale andirivieni dei caterpillar; con la
memoria della durevole modernità che ha contrassegnato strade e spazi:
dall’eclettismo al liberty al Novecento al razionalismo, infine al neo-razionalisno
degli anziani insieme all’alternativa critica proposta dalla generazione
successiva. Niente di tutto questo. Un’estraneità impressionante,
internazionalista e altezzosa, per giustificare la quale non basta menzionare
la casualità delle occasioni fondiarie. La nozione e la verità reale di contesto,
distintivo della scuola milanese, ignorata o trascurata di proposito. Se
vogliamo ascoltare Dejan Sudijc sulla Biennale veneziana di architettura,
Eiseman, leone d’oro alla carriera e Kurt Forster, curatore della mostra
ovunque improntata dal primo, condividono il medesimo disprezzo della gente e
la medesima celebrazione del sé: “vogliono proporsi come figure creative
autonome avulse dalla funzionalità, dal contenuto o persino dalla
costruibilità” (in “Il Giornale dell’Architettura”, p.6). Non so se gli
architetti legati posteriormente al carro delle grandi imprese presentatrici
dei progetti e delle offerte sprezzino anch’essi la gente. Certo sono dentro
fino al collo, come il personaggio di Samuel Becket nel fango-merda, in quel
pozzo di estraneità. Più che disprezzarla, penso, della gente se ne fregano.
Come se ne infischiano del rapporto architettura società, della funzione
sociale e non solo utilitaristica e/o rappresentativa dell’architettura. Come non
gli interessa l’architettura accordata (sì, come uno strumento musicale) ai
paesaggi, né la bellezza della campagna “resistente” soggetta al colere (colere
artes et studia, Cicerone) essa stessa fine architettura; né, in progetti
urbani di ambiti vasti, la qualità vitale di luoghi dove l’urbanistica assegna
all’architettura e a migliaia di alberi il compito di protagonista e
deuteragonista, anche scambiando le parti, per costruire lo spazio umano.
Un breve cenno al mai
sazio Tronchetti Provera che ora deborda nell’area ex-Ansaldo lungo Viale Sarca
impiegando la nuova “macchina da guerra”, la Pirelli Real Estate (azienda di
“promozione urbanistica ed edilizia”, si deve dire, richiesta da più parti. Su
“la Repubblica” del 20 ottobre che dedica due pagine a colori alla fregola
innalzatoria milanese, si legge solo di un grande edificio dotato del solito
centro commerciale, della non meno solita multisala da diciotto schermi e di
non precisate sale giochi.
Lascio da canto la Nuova
Fiera di Pero-Rho, dove il geniale Fuksas sfogherà la sua sinusoide garzosa,
una festa volatile all’architettura caduca, fra gli otto padiglioni piatti e
sordi come piattoni e blatte.
Indugerò sulla Vecchia
Fiera e su qualche altro progetto di cui si hanno informazioni da giornali , riviste
e mostre, approssimative ma sufficienti per lasciar capire o intuire dove e
come continuerà a volgere il cammino di Milano dopo lo shok della Bicocca.
Area della Vecchia
Fiera: sogno di Albertini che cianciò, dormendo o sonnambulando per casa, di un
nostro, anzi un suo personale Central Park come a N.Y. Il “concorso” (virgolette inevitabili) fu
del tipo dilagante in tempi di abrogazione del confronto fra progetti autorali
veri e di esaltazione del tecnicismo e dell’economicismo insieme alla svalutazione
del lavoro puntuale, certosino, anti-generico, raffinato dell’architetto:
figura, questa, se nota o famosa, invece utilizzata come pupazzo pubblicitario
o indispensabile quinta ruotina dell’impresa d’affari e costruttrice, come è
d’obbligo averla di scorta nel baule dell’automobile. È l’impresa a gareggiare,
è lei a offrire il prodotto col prezzo magari “chiavi in mano”, è lei, se
l’affare evolve, a realizzare la costruzione (o affidarla ad altra azienda
collegata) coi suoi metodi, le sue tecniche, i suoi esecutivi e particolari
costruttivi, assumendo i render dell’architetto – eseguiti dai
dipendenti abili al computer – quali informazioni figurative pittoriche
(pittoresche). Le immagini del progetto generico, gioco di effetti al computer,
visioni in prospettiva quante se ne vuole, talora barbine, un presunto vero che
più falso non si può, oppure vedute dall’alto di plastico virtuale, o ancora,
nel caso di volume singolo come un
grattacielo in tenzone con altri per il primato d’altezza, modellino soprammobilario
privo di disegno architettonico: serviranno a épater i membri della
giuria o i committenti se abbastanza ingenui e/o ignoranti.
Il concorso relativo al
recinto della Fiera ha sbugiardato la presunzione albertiniana confermando
subito la contestazione di Sergio Brenna attraverso diverse ipotesi di
forme-volumi secondo altezza, tutte dimostrative della grave scarsità di
terreno destinabile a parco. Altro che Central .Park. newyorkese! “Il
Giornale dell’Architettura”, solitamente non troppo propenso alla critica,
propone nel n. 22 di ottobre una propria shortlist dei cinque progetti
selezionati ed esposti alla Triennale. La classifica generale interessa meno
della maglia nera assegnata ad Hadid-Isozaki-Lebeskind, i tre al servizio della
cordata vincente Generali-Ligresti (nota: ormai entrato al
“Corriere”)-Lanaro-Grupo Lar Desarrolos Resindentiales. Tre torri di cui due
focomeliche sciancate, forme insensate espressione di una specie di comica
tragica in digitale detta da tre magatelli ognuno per sé. Nessun ascolto della
città, nessun principio urbanistico di organizzazione dello spazio. Sapete che
la giuria ha blaterato di “accadimenti architettonici che si compiacciono delle
proprie differenze”?. Se fossero stati in quattro invece che in tre, avrebbero
proposto altrettanti e diversissimi grattacieli?
Secondo Alain Croset, “più che emblematico di
una ‘Nuova Milano’ il progetto è emblematico dell’autoreferenzialità di una
parte dell’avanguardia architettonica internazionale. Nessun riguardo per le relazioni
con la città esistente, quindi” (“Il Giornale dell’…”, p. 30).
Intanto scalpitano le
altre cordate coi relativi architetti e le Nuove Milano di Montecity-Rogoredo
(industrie chimiche e metallurgiche dismesse), del Portello (terreno dei vecchi
capannoni dell’Alfa Romeo), di Porta Vittoria (ex scalo ferroviario), di
Garibaldi-Repubblica, (uno spazio ritornato in partita dopo essere rimasto a
gerbido per decenni invece che trasformato in un parco, e dopo le vicende di un
concorso dimenticato) sembrano (sembrano) tutte sul punto di decollare. Ma non
conosciamo quale sarà il vero assetto finale di ogni luogo poiché vediamo
rappresentati o esposti qua e là solo i meta-progetti immaginosi che avranno
qualche possibilità di trasformarsi in realtà somiglianti ai primi solo in
vaghe linee generali, certo non nella plasticità di componenti intrinseche
studiate a fondo che ora nei progetti non esistono. Immagini e modelli a parte,
leggiamo elenchi di destinazioni – le solite
cose – ma, risolvente per sentire la
prossimità del rivolgimento urbanistico, osserviamo il movimento traboccante
delle imprese, presenti sulla scena milanese ben più dei loro architetti
burattini se guardiamo, da un lato, alla polpa finanziaria e fondiaria,
dall’altro alla facilità di comando verso il comune. Il giovane Luigi Zunino,
uno sconosciuto piemontese per i cittadini non attenti alle trame finanziarie e
fondiarie e alla borsa, di mestiere “sviluppatore” si è scritto, pare lui,
oggi, l’affarista sulla cresta dell’onda più alta. Le mani le ha da tempo su
Montecity-Rogoredo, più esteso della Bicocca, e anche sullo scalo di Porta
Vittoria. Prendiamo il primo caso. Zunino, si legge sui quotidiani, presenta il
progetto, il cui disegno complessivo è stato affidato a Norman Foster. Ma quale
progetto? Vediamo sui giornali una gustosa prospettiva puntillista svagante di case e alberi e leggiamo
un’intervista nel cui sommario si vanta un “verde” pari a metà della
superficie. Nel testo però lui stesso ci racconta di un parco di 33 ettari che,
su un totale di 120, sono veramente pochi (e non sarebbero sufficienti
nemmeno 60 secondo una visione progressista del rapporto fra spazi
edificati o infrastrutturali e spazi esclusivamente verdi). Ma la verità e la
velleità infine risiedono, appunto, in un piatto e noncurante, se così posso
dire, elenco. Leggo: “…tra l’altro quasi duemila appartamenti, un centro
commerciale, un parco [ah! ecco], un centro convegni e un nuovo mega-svincolo
per la Paullese”. E poi le complicazioni esecutive che comporteranno ribaltoni
progettuali: “…la società di Zunino ha ceduto i diritti per la residenza alle
Acli e alla Legacoop e il commerciale
alla Esselunga. Per il resto si vedrà: manca in particolare un privato che si
accolli l’onere del centro congressi” (in “la Repubblica” 20.10.2004, p. II di
Milano Cronaca). Commentar non serve.
Sull’area
Garibaldi-Repubblica uno schema esposto al pubblico e un elenco ci indicano che
attorno al grattacielo della Regione dovrebbero sorgere la città della moda, la
scuola, il museo del design, un albergo, zone residenziali… che altro?. Purtroppo quella stupida effige di più alto
grattacielo d’Europa immaginato dal vecchio Ieoh Ming Pei per il fanatismo del
nostro governatore Formigoni – con uno spigolo fortemente appuntito destinato,
quando fosse vero, a essere sfregato e lucidato dalle dita dei visitatori come
nella New Wing della National Gallery of Art realizzata
dall’architetto trent’anni fa a Washington – forse riuscirà a svettare: salvo
un’augurabile prossima débâcle finanziaria o d’altra natura che
bloccherebbe l’erigendo all’altezza di un mozzicone ammonitore. (Intanto si è
già sollevata la protesta degli abitanti e dei Verdi per l’eccessiva vicinanza
delle costruzioni previste alle abitazioni esistenti…)
Lodo Meneghetti
30 ottobre 2004