da Eddyburg 22/9/09
Pasticci,
contraddizioni, assurdità nella protesta di un gruppo di architetti italiani
contro gl’incarichi assegnati in questi ultimi anni ad architetti stranieri
(vedi nel sito gli articoli riprodotti da giornali, gl’interventi, i documenti,
date 10, 11, 18 settembre a partire dagli articoli di Pierluigi Panza sul “Corriere
della sera” del 7 e 8).
“Grandi”
architetti contro “grandi” architetti, meglio “grandi” nomi contro “grandi”
nomi? Sì e no. Infatti qualche firmatario dell’appello appartiene egli stesso,
come i noti stranieri disputati, al jet set internazionale
dell’architettura; il nome di qualcun altro, poi, è piccolo.
Altri
italiani non sottoscrittori (come Fuksas e Bellini), pieni di incarichi anche
all’estero, vantano un proprio disinvolto internazionalismo privo di dubbi
spendendo banalità sulla globalizzazione, un po’ mitigate da una certa
differenziazione dai colleghi riguardo a questioni rilevanti, come la mancanza
di opposizione all’abusivismo e ai condoni (dice il primo) o l’avvertimento a
non cancellare le soprintendenze ma a riformarle e a qualificare maggiormente i
concorsi (dice il secondo).
Mi fermo
subito alla motivazione più sconcertante contenuta nell’appello, appunto l’accusa
alle soprintendenze di essere loro specialmente responsabili del mancato
“sviluppo in Italia della nuova architettura”.
Questa è
davvero grossa. Qui si fanno carte false. Quali sarebbero le “molte opere significative
rimaste sulla carta” a causa del “diritto di veto dei soprintendenti”? Non
credo che a tal proposito si debba distinguere fra italiani e stranieri, e bado
ai fatti.
Una delle
ultime contese ha riguardato, dal principio del 2004, la costruzione
dell’auditorium progettato da Oscar Niemeyer per Ravello. Ampie discussioni in
Eddyburg, documenti pro e contro, firme e controfirme… Per quasi tutti i
frequentatori del sito l’opera violava le regole urbanistiche esistenti,
inoltre danneggiava gravemente la funzionalità e la bellezza dell’ambiente, per
parte sua già oltre i limiti della sopportabilità edificatoria. La soprintendenza,
davanti all’arrogante decisionismo del Comune sostenuto da tanti nomi non tutti
belli della cultura, del giornalismo, del management insofferenti della
legalità, lasciò fare, l’auditorium vinse la partita.
All’estremo
opposto temporale una delle prime contese a vasta risonanza, quella relativa al
progetto di Wright per il Memorial Masieri sul Canal Grande (vedi anche nel
sito il mio Pirani non docet, 7 maggio 2004): un caso completamente
diverso. Si intendeva inserire un edificio di modeste dimensioni in un breve
tratto della cortina lungo il Canale. Le istituzioni locali e no, soprintendenza
compresa, bocciarono il progetto,
meravigliosamente (wrightianamente) ispirato alla storia alla natura ai
sentimenti, accecate dal pregiudizio verso un’architettura moderna ritenuta
comunque offensiva di un presunto inesistente stile del Canale: quando la
cortina, lo sappiamo, espone architetture di cinque o sei secoli che è solo la
forza della continuità e della partecipazione della strada d’acqua a tenere
insieme. Fu il Comune, ossia la grettezza degli amministratori, più che la
soprintendenza, a manifestare da subito il vero e proprio odio verso il progetto.
Stessa sorte, per la medesima ragione, ebbe in seguito il progetto di Le
Corbusier per un ospedale.
Non è
possibile un discorso risolutivo sui presunti impedimenti delle istituzioni
contro la modernità in architettura. In sessant’anni è successo di tutto nel
nostro paese, oggi lo abitiamo come fosse passata una terza guerra. Che ha
devastato e soprattutto, come in un ossimoro, ha costruito costruito costruito,
case e cose, al 99 per 100 estranee alla buona architettura e al disegno
intelligente se non emblemi di inutilità, bruttezza e corruzione morale. È
questo semmai che rivela la debolezza o la atarassia o l’opportunismo di certe
soprintendenze, vuoi superate dai poteri dei politici e degli amministratori
locali, vuoi strette anch’esse nel cerchio dei favori, delle collusioni e degli
imbrogli pilotati dai proprietari fondiari e dagli imprenditori coi loro affidabili
alleati dei governi e delle amministrazioni. La buona architettura, pochissima
per definizione, praticamente invisibile girando il paese, si è introdotta dove ha potuto e le soprintendenze c’entrano
poco.
Tuttavia
non sono mancati funzionari indipendenti, liberi e coraggiosi che hanno praticato
la difesa a oltranza contro i nemici dei beni architettonici e artistici.
Filippo Ciccone cita giustamente Adriano La Regina, il difensore di Roma inviso
ai potenti (ha lasciato la carica, quasi costretto, a giugno dell’anno scorso),
il difensore dei soprintendenti decentrati il cui “potere totalmente autonomo”
(nell’appello), inaccettabile per gli appellanti sorprendentemente disinformati,
non è più tale da anni a causa delle riforme strutturali (per esempio
l’istituzione di direttori regionali di
nomina politica) e delle forme di neo-centralismo governativo che però un “ministero
ormai allo sfascio” (Ciccone) non riesce a gestire: La Regina, il
soprintendente ai beni archeologici ritenuto inflessibile che in definitiva ha
accettato la nuova sistemazione dell’Ara Pacis in base al discutibile
progetto di Richard Meier, anni fa membro di un gruppo il cui linguaggio fu
definito da certi studiosi iper-razionalista.
Vado avanti con gli esempi. Il bravo architetto
ticinese Mario Botta, straniero per modo di dire, condividendo l’appello,
candido o furbo apprezza il centralismo e sprezza la figura del soprintendente.
Grazie tante. Un po’ di pudore per favore!
Jacopo Gardella, nell’articolo del 18 settembre in
“la Repubblica” qui riprodotto, denuncia (senza far nomi, chissà perché) la
scorrettezza, anzi la sostanziale illegalità dei due più importanti “interventi
monumentali di questi anni” a Milano, la ristrutturazione della Scala e il nuovo
teatro Arcimboldi, definiti e attuati senza concorso pubblico. Botta ebbe
l’incarico comunale per la Scala su promozione di Sgarbi quando questi era
sottosegretario, vale a dire del potere centrale, centralistico si
vorrebbe dire. Ora, ripeto ciò che pochissimi nel nostro ambiente hanno osato
obiettare: nessuna soprintendenza gli impedì di costruire la grossa inutile
torta cilindrica che ci godiamo dalla piazza, volgendo le spalle a Palazzo Marino,
di fianco all’imponente volume scenico e al di sopra del tetto del palazzo ex
Biffi-Scala. Ma, si sa, criticare l’assurda costruzione vuol dire essere
bollati come incapaci di comprendere la validità del linguaggio moderno parlato
legittimamente accanto all’antico o ad altra lingua; inoltre è raro un giudizio
critico da architetto ad architetto se entrambi appartenenti al gruppo
ristretto degli italiani migliori e/o noti. Inutile, perché l’esigenza
rappresentata dal volume destinato genericamente a sevizi era superata
dall’acquisto dell’edificio in Via Verdi confinante con il complesso scaligero
e perfetto, nella sua bruttezza da rimediare attraverso un bel progetto di
riconfigurazione, per contenere quei misteriosi servizi (e perché misteriosi?
Perché anche nelle visite guidate che la Scala offre la visione del cilindro
all’interno è semplicemente non è ammessa). Suona male, caro Botta, il ricordo
del vecchio divieto veneziano. Intanto, nel disinteresse delle soprintendenze
ma anche degli architetti supposti colti, universitari e no, Mario Botta
compreso, era stata distrutta la deliziosa Piccola Scala, opera Novecento di
Piero Portaluppi indispensabile per le opere liriche appunto piccole, per
quelle in forma di concerto e così via.
L’atteggiamento di Gregotti, progettista del teatro
Arcimboldi oltre che di un intero pezzo di città sensazionale esempio di
espansione urbana fuor di ogni piano o idea complessiva preventivamente
dichiarata (più volte oggetto di riflessioni in Eddyburg), rivela le
contraddizioni e le ambiguità che l’imprudente ricorso ad affermazioni radicali
e corporative costringe a vivere. Lui firma l’appello, poi si mette da parte avvertendo
l’esagerazione di aver incolpato le soprintendenze per un presunto mancato
“sviluppo italiano dell’architettura” e ne richiede soltanto minor
burocratizzazione e maggior qualificazione culturale, penso verso l’arte e la
società: dotazione quest’ultima che forse non è troppo abbondante in suoi
colleghi italiani o stranieri e che invece dovrebbe esigere, lui che colto è,
quando osino dar lezioni di comportamento. Poi anche Gregotti dà un saggio di
candore o di strana schizofrenia: la causa principale dell’invasione straniera,
accanto al basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche, sarebbe
dovuta alla “struttura dei concorsi”. Quale struttura quali concorsi,
quand’egli, come ricorda Jacopo Gardella, ha partecipato all’infrazione delle
regole europee e dell’etica professionale attraverso l’assegnazione privata del
progetto Arcimboldi.
Ad ogni modo il tema dei concorsi è quello sul quale
gli appellanti avrebbero dovuto mobilitarsi seriamente e non solo per quei
capestri verso i giovani denunciati ancora da Gardella.
Mi riferisco soprattutto ai falsi concorsi come
quello indetto dal Comune di Milano per l’area della Vecchia Fiera: non un
confronto fra progetti autorali veri ma una gara fra imprese invitate che
offrono un prodotto col suo prezzo quasi chiavi in mano (ma che poi potrà
essere molto diverso). Ogni impresa o gruppo di imprese trascina con sé un architetto
necessariamente famoso a scala di mercato globale dell’architettura (è questo
che probabilmente fa privilegiare il ricorso a nomi stranieri altisonanti), lo
utilizza come un’effige pubblicitaria, assume i suoi rendering o modelli
quali informazioni figurative più o meno fantasiose per épater la
impropria giuria dell’improprio concorso. Gli architetti avrebbero dovuto
attaccare pesantemente il risultato: quell’indecente progetto
Hadid-Isozaki-Lebeskind, i tre famosi al servizio della cordata vittoriosa
Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarrolos Residentiales: le tre torri ora
note a quasi tutti i milanesi grazie all’impressionante battage della
giunta municipale e contestate dai residenti nella zona, tre ognuna per sé
dalle forme insensate, che non sanno organizzare lo spazio, che accettano
l’incredibile scarsità di verde (altro che nostro Central Park propagandato dal
sindaco Albertini), che rivelano la totale incapacità di ascoltare Milano, la
sua storia, la sua crisi (per un quadro degli interventi in ballo a Milano vedi
nel sito i miei Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30
ottobre 2004, e Non-architettura a Milano, 19 luglio 2004).
Ecco il punto debole che i più bravi architetti
italiani e in particolare i milanesi, purché irreprensibili nei loro gesti
professionali e culturali, dovrebbero denotare in colleghi stranieri chiamati
da imprenditori e imprese di costruzioni a servirli: l’impreparazione o
l’inettitudine a capire il contesto del progetto e dell’opera, a introiettarne
la storia i valori e i sentimenti mentre lo si avvicina fin dal principio: non
bastano le visite sul posto per risolvere il problema.
Si obietterà che lo stesso varrebbe per architetti
italiani molto attivi in altri paesi, come i globalisti Fuksas, Bellini,
Benini… Beh, se rivendicano un internazionalismo architettonico indifferente,
vuol dire che dei contesti se ne impipano. Le contraddizioni non hanno fine,
peraltro: come può un Gregotti, che al
massimo riconosce se stesso in un “internazionalismo critico”, formula di
comodo d’altronde, progettare intere città in Cina? (Non so, apriamo finalmente
una vera discussione sull’architettura, che forse è morta davvero come è morta
l’urbanistica dalla quale si era separata, perciò indebolendosi anziché
rafforzarsi come si era potuto credere: “è morta quale mestiere civile
comunitario di lotta o almeno di avvertimento verso l’individualismo che ignora
il contesto sociale-spaziale e pretende solo l’esaltazione del sé – anche
quando il risultato appare, a chi esercita i propri sensi e dunque sa riconoscere
proprietà e bellezza, irrimediabile errore e inopinabile bruttezza”, La
partecipazione in urbanistica e architettura. Scritti e interviste,
Unicopli, Milano 2003, p. 82.
Cade a proposito qui il ricordo della pesante critica
– finalmente! – dell’oscillante Gregotti ai progetti per Ground Zero: “… tutta
la vicenda architettonica che ha accompagnato con solerte e interessata
prontezza la tragedia dell’11 settembre è stata una rara collezione di stolti esibizionismi
personali… sotto l’insegna del Guiness dei Primati – ha vinto naturalmente chi
ha proposto il grattacielo più alto [Daniel Libeskind] – e dell’assenza di ogni
sobrietà espressiva”, in “la Repubblica”, 2 marzo 2003. Spero che l’autore del
duro giudizio non se lo sia concesso stante la foreignness dell’architetto).
Non peroro alcun regionalismo architettonico; ma non dimentico che la crisi del
Razionalismo italiano ed europeo fu dovuta anche o soprattutto all’omologazione
di uno stile internazionale posto al di sopra della storia e dello spirito dei
luoghi, un pensiero senza sbocchi di fronte alle pressanti domande poste agli
urbanisti e architetti dalle città, salvate o disastrate, appena finita la guerra.
Imprenditori/imprese e architetti: gli appellanti,
invece che sparare su nemici inesistenti, dovrebbero combattere contro il
predominio, purtroppo oggi ben consolidato, degli immobiliaristi e quindi
denunciare l’umiliante sudditanza degli
architetti sia in occasione dei falsi concorsi o gare, sia quando vengano
scelti come da un padrone il suo maggiordomo. Come accettare, per esempio, la
volgare arroganza di un qualsiasi Luigi Zunino, giovane personaggio inesistente
per i cittadini se non i pochi attentissimi agli intrighi finanziari e fondiari
e borsistici, arrivato tardi sulla scena milanese esibendo il mestiere di
“sviluppatore”, che vanta di “scegliere il meglio”, di qua un Norman Foster di
là un Renzo Piano quasi fossero marionette appese al filo? (articolo del
“Corriere” dell’8 settembre). Si obietterà che è destino degli architetti, da
sempre, di essere prescelti dai potenti e dai governanti per i maggiori
progetti. Sì, ma Zunino o Ligresti o Lanaro o Tronchetti Provera non sono Giulio II o Sisto V, e il lombardo
governatore Formigoni, che ha scelto Ieoh Ming Pei per il personale
“grattacielo più alto d’Europa”, non è l’urbinate duca Federico di
Montefeltro.
Milano, 22 settembre 2005